CAPITOLO 13
Tornarono in città sul far della sera. Durante tutto il tragitto in auto, Tiziana aveva tenuto la testa sulla spalla del commissario e le mani incrociate attorno al suo braccio. Boschi riusciva a malapena a guidare.
Giunti davanti alla pensione, la ragazza disse al commissario:
“Dai, vieni anche tu. Voglio che ceniamo insieme.”
Preso alla sprovvista, Boschi replicò:
“Non starai correndo un po' troppo?”
Ma Tiziana rispose:
“No. Sei l'uomo giusto, quello che tanto ho cercato, colui che mi farà felice. Ti amo e voglio dirlo al mondo intero.”
Scesero dall'auto ed entrarono nella pensione. La signora Rosa fu piacevolmente sorpresa rivedendo il suo ospite.
“Commissario, che piacere rivederla! Come sta?”
Un po' impacciato, perchè immaginava quanto sarebbe accaduto di lì a poco, Boschi rispose:
“Tutto bene signora. Mi ha detto Tiziana che oggi avete svolto la manutenzione degli impianti, così siamo andati a pranzo fuori.”
A quel punto la ragazza si inserì nella conversazione:
“Mamma, il commissario si ferma a cena da noi, così possiamo mangiare tutti insieme.”
Lo disse in tono serio e deciso, così la signora Rosa non replicò e non chiese spiegazioni.
Tiziana si mise ai fornelli (“una cosa rapida e semplice”, aveva detto) e poco dopo un buon profumo di scaloppine in salsa d'arancia si levò nell'aria. La ragazza ultimò la cottura, apparecchiò la tavola, quindi prese tre bicchieri e stappò una bottiglia di prosecco.
La signora Rosa la guardò interrogativa:
“Tiziana, cosa si festeggia?”
La ragazza, raggiante di felicità, potè finalmente dare la notizia:
“Mamma, oggi mi sono fidanzata.”
La signora Rosa rimase colpita, ma in fondo ne fu felice. Da tempo aspettava che ciò avvenisse.
“E' una bellissima notizia, figlia mia. Ma chi è? Mi farebbe piacere conoscerlo. Lei che ne pensa, commissario? Sarà un bravo ragazzo, un onesto e serio lavoratore come lei?”
Boschi si sforzò di rimanere impassibile, non sapeva più da che parte guardare.
A sentire queste parole, la ragazza scoppiò a ridere:
“Mamma, mi sono fidanzata con Mario! E' lui l'uomo della mia vita, l'uomo che ho tanto cercato!”
La donna sembrò diventare una statua. Non diceva nulla, guardava sua figlia mentre abbracciava il commissario e lo teneva ben stretto a sé. Passati alcuni istanti, si mosse. Fece qualche passo, si avvicinò a Boschi, quindi, come se si fosse rianimata dopo quei momenti di stupore e sorpresa, lo guardò intensamente e gli disse:
“Il destino mi ha tolto mio marito troppo presto, ma mi ha anche mandato l'uomo capace di rendere felice mia figlia. E' questo il primo posto della città dove lei si è fermato, commissario. Ricorda? E' stato davvero un segno del destino. Ho avuto solo questa figlia, Tiziana è tutto per me. Ed ora sarà come avere un altro figlio, un figlio speciale. Commissario, benvenuto nella nostra famiglia. E che possiate sempre essere felici.”
La signora Rosa strinse a sé il commissario. Quando si sciolse dall'abbraccio aveva gli occhi lucidi.
Guardò la figlia, poi finalmente si aprì in un sorriso luminoso e disse:
“Qui bisogna festeggiare come si deve. Intanto facciamo un altro brindisi.”
Riempì i bicchieri e disse:
“Alla felicità di questa coppia di innamorati!”
Gustarono il prosecco ridendo, poi la donna riprese:
“Ed ora gustiamoci le scaloppine. Altrimenti perdono la loro tenerezza e la cuoca ci rimprovera! Che ne dice, commissario?”
Boschi rispose prontamente:
“Pienamente d'accordo con lei, signora. Ma la prego, mi chiami Mario, se vuole. Mi farebbe molto piacere.”
Non andarono oltre le scaloppine. Il pranzo e le emozioni della giornata avevano avuto il loro peso, era ora di andare a dormire. Tiziana accompagnò il commissario alla porta, si salutarono con un lungo ed appassionato bacio e la promessa di risentirsi l'indomani.In pochi minuti Boschi giunse nella sua casa sul lungomare. Aveva bisogno di fare una doccia e di raccogliere le idee, gli ultimi avvenimenti lo avevano distolto dal suo pensiero principale.
Aveva bisogno di una piacevole dormita, sentiva ad istinto che l'indomani sarebbe stata una giornata impegnativa.Dormì otto ore filate, si svegliò alle sette e trovò un messaggino sul cellulare: “Amore, quella di ieri è stata la più bella giornata della mia vita. Ti amo e non vedo l'ora di riabbracciarti.”
Il commissario sorrise piacevolmente al pensiero di quella ragazza, che tanto lo aveva cercato e voluto: sentiva, ad istinto, che non si sarebbe potuto innamorare di una donna diversa da Tiziana. Rispose al messaggino: “La vita è fatta di sorprese. Ho dovuto fare un viaggio lungo per poterti incontrare, ma sei la donna della mia vita.”
Si rasò e si fece la doccia, quindi scese nel bar sotto casa per fare colazione. Pochi istanti dopo si trovava già in auto, diretto al commissariato.
Aveva bisogno di avere la mente sgombra da ogni pensiero. La mattinata si sarebbe presentata diversa dal solito.
Alle otto e un quarto parcheggiò l'auto, varcò la porta d'ingresso e trovò Carelli in servizio:
“Novità?”
“Nulla, commissario. Il vicecommissario Palumbo è appena arrivato, l'ispettore Vicari è uscito per andare in questura.”
Boschi andò nel suo ufficio, quindi chiamò il suo vice:
“Luca, puoi raggiungermi un attimo?”
Palumbo fu lesto a raggiungerlo. Era ansioso di sapere le novità del giorno precedente.
“Ieri pomeriggio non ti ho visto per niente. Hai notizie sull'indagine?”
Con un sorriso che lasciava intendere tutto e niente, il commissario rispose:
“Notizie sì. Ma non sull'indagine.”
Il vicecommissario avrebbe voluto saperne di più, ma lo sguardo del suo capo non lasciava spazio a dubbi: non gli avrebbe detto altro. Decise di cambiare argomento, dedicandosi al lavoro.
“Secondo te, a cosa ci ha portato il colloquio con Giacomo Cirilli?”
Il commissario rispose:
“Quel ragazzo ci ha dato un'indicazione fondamentale. Il nome dell'operaio, Kahlgibran Ahmed, è probabilmente la chiave di volta dell'indagine. Ma dobbiamo trovare subito Kahlgibran Fahrid, ora più che mai dobbiamo sapere se ha qualcosa da dirci.”
In quel momento, sulla porta dell'ufficio di Boschi apparve Zuccoli:
“Commissario, ho concluso la ricerca che l'ispettore Vicari mi aveva chiesto. Ma mi ha incaricato di portare i risultati a lei.”
Posò uno spesso fascicolo sul tavolo del commissario ed uscì.
Il commissario ed il suo vice si misero ad esaminare il materiale: Zuccoli aveva fatto davvero un ottimo lavoro.
Fahrid Kahlgibran aveva sessantadue anni e si trovava in regime di semilibertà da due. Durante il giorno lavorava come giardiniere in una cooperativa di servizi sociali, alla periferia nord di Roma. Secondo le indicazioni riportate nella sua scheda personale si trattava di un detenuto modello. Non aveva notizie dei familiari da almeno dieci anni; aveva un fratello molto più giovane di lui, di nome Ahmed.
Il commissario sorrise e disse a Palumbo:
“Centro!”
“Che vuoi dire?”
“Che abbiamo il collegamento che stavamo cercando. Non credo che Ahmed Kahlgibran fosse alle dipendenze dei Di Silvestro per caso.”
Leggendo la scheda, Palumbo ebbe un pensiero che subito comunicò al commissario:
“Mario, ma Fahrid sarà a conoscenza della situazione attuale del fratello e della morte di Suzette?”
Boschi replicò:
“Io non credo. Ci aspetta una bella gita nella Città Eterna. Chiama Grossi e fagli preparare un'auto, voglio con noi anche Martella.”
Lesse sulla scheda il nome della cooperativa. Chiamò la sede, si qualificò, parlò con il presidente e concordarono i dettagli.
Mentre Palumbo usciva dall'ufficio per cercare gli agenti, il commissario chiamò:
“Vicari!”
L'ispettore raggiunse la stanza del suo superiore:
“Mi dica, commissario.”
“Come procedono le indagini sull'assassinio del filippino?”
“Guardi commissario, il medico legale ha isolato il DNA del probabile assassino. E' un dato non presente negli archivi della questura, ma sto ricostruendo il percorso di Suzette, alla ricerca di tutti i possibili indiziati.”
“Bene, vai avanti così e poi tienimi informato.”
Appena l'ispettore uscì dalla stanza, Palumbo entrò per avvertire il commissario che erano pronti. Si misero in auto, Boschi chiese a Grossi di passare alla pensione “Mare blu”, benchè l'ora di pranzo fosse ben lontana. Il commissario raggiunse Tiziana, la informò del viaggio imminente. La ragazza lo abbracciò, lo baciò teneramente e gli disse:
“Stai attento, amore mio. Ora che ti ho trovato, non voglio perderti.”
Boschi salì in auto, Palumbo lo guardò e gli disse semplicemente:
“Ora capisco la novità di ieri. Mi fa piacere, davvero.”
Il commissario sorrise. Sapeva che le parole del suo vice erano sincere.
Grossi imboccò l'autostrada, a quell'ora trovarono scarso traffico ed in poco più di due ore giunsero a Roma. Percorsero un buon tratto di tangenziale, oltrepassarono la Via Salaria e giunsero in vista della cooperativa “Bosco Fiorito”. Il presidente, debitamente avvertito dal commissario, era sulla porta ad aspettarli. Era un uomo sui quarant'anni, vestito in tenuta sportiva. Aveva l'espressione di chi è abituato al lavoro manuale in prima persona, pur dovendo dirigere un'attività delicata come quella.
“Ben arrivati, commissario. Sono Maurizio Viterbo, il presidente della cooperativa Bosco Fiorito. Vi prego di perdonare il mio abbigliamento, stavo sostituendo la pavimentazione del portico.”
“Ma si figuri! Piuttosto, mi spiace se l'abbiamo distolta dal suo lavoro.”
“Nessun disturbo, mi creda. Altrimenti vi avrei risparmiato il viaggio. Voi siete qui per parlare con il signor Kahlgibran, non è così? Entrate, ve lo chiamo subito.”
Ma il commissario lo fermò:
“Signor Viterbo, se non le dispiace vorrei fare prima due chiacchiere con lei.”
“Certo. Venite, vi offro un caffè.”
Boschi accettò volentieri a nome di tutti. Diede indicazioni a Grossi per parcheggiare l'auto (“fai in modo che non si veda, magari i detenuti in semilibertà si mettono in allarme”), quindi seguì Viterbo all'interno della cooperativa.
L'uomo si mise al lavoro in una piccola cucina:
“Mi perdoni, commissario. Qui siamo amanti delle cose tradizionali, ci prepariamo il caffè con la moka. Sembrano piccole cose, ma sono importanti soprattutto per i nostri ospiti.”
Boschi e Palumbo apprezzarono quel gesto e quelle parole semplici. Maurizio Viterbo servì il caffè, quindi tutti presero posto in un salottino ed il commissario domandò:
“Signor Viterbo, da quanto tempo Fahrid Kahlgibran lavora presso di voi?”
“Da due anni, commissario. E' un pachistano dalla vita molto travagliata, che lei sicuramente avrà avuto modo di conoscere.”
Boschi lo incoraggiò:
“Non si preoccupi, la ascoltiamo con piacere.”
“Bene. Come le dicevo, Kahlgibran presta servizio presso di noi da due anni. Una quindicina di anni fa è stato arrestato in Pakistan con l'accusa di complicità in un traffico d'armi internazionale e processato a Torino. Ha scontato tre anni nel carcere di Voghera, poi è stato trasferito qui a Roma, pare su ordine dell'Interpol. Questioni di competenza internazionale, racconta Fahrid. Il direttore del carcere lo ha esaminato e controllato a lungo, Kahlgibran ha sempre tenuto un comportamento molto mite e rispettoso. Pertanto gli è stato concesso il regime di semilibertà per il restante periodo di pena. Qui da noi si comporta molto bene, lavora e va d'accordo con tutti.”
“Ha mai notato delle particolari abitudini, che so, piccole manie?”
“Nulla commissario. Qualche volta ho notato un particolare, così nel corso di una chiacchierata ho provato a capirne i motivi.”
Boschi e Palumbo si fecero improvvisamente più attenti.
“Che tipo di particolare?”
“Come le dicevo prima, Fahrid qui svolge il lavoro di giardiniere. Un pomeriggio, durante lo scorso autunno, stava rastrellando le foglie secche. Erano molte, avevano creato un grande mucchio, così mi sono avvicinato a Fahrid per aiutarlo a mettere le foglie in due grossi sacchi di plastica. Mi colpì il fatto che fosse molto restio a fare questo, così gliene chiesi il motivo. Mi disse che le cose non si devono buttar via, altrimenti occupano spazio, ma soprattutto non si cancellano mai. Per questo si devono distruggere, non buttar via. Disse proprio così, distruggere.”
Il commissario ascoltava attentamente, ma sembrava perso nel suo mondo. La mente girava a mille, tra tante ipotesi ce n'era una che si faceva via via più nitida. Ma c'era ancora qualcosa da mettere a fuoco.
Si alzò, imitato dagli altri, quindi chiese al presidente della cooperativa:
“Può accompagnarmi da Fahrid?”
“Certo. Venite.”
Raggiunsero il giardino. Grandi prati, punteggiati da aiuole di fiori ben tenute, siepi e cespugli, qua e là qualche fontana. Al disotto di un gruppo di oleandri, un uomo di pelle scura, i capelli grigi radi sulle tempie, il volto scavato, i grandi occhi scuri a seguire il lavoro. La schiena leggermente curva e le lunghe mani ossute completavano l'immagine di chi dimostrava più degli anni che aveva. Il commissariò si avvicinò lentamente, Viterbo lo accompagnava.
“Fahrid, ascolta. C'è qui un signore che vorrebbe parlare un po' con te.”
L'uomo lasciò i suoi attrezzi, si tolse il berretto e porse lentamente la mano al commissario.
“Buongiorno, mi chiamo Mario Boschi, sono un commissario di polizia. Signor Kahlgibran, posso parlare un po' con lei?”
Il pachistano guardò Boschi e rispose:
“Certo, possiamo parlare. Cosa può volere da me un commissario di polizia? Ho già detto tutto al giudice, quasi quindici anni fa.”
“Non si preoccupi, diciamo che vorrei fare solo una chiacchierata con lei. Se è d'accordo, è ovvio.”
“Mi dica, commissario.”
“Lei è stato arrestato quattordici anni fa, nel corso di un'indagine su un traffico d'armi. La sua funzione era quella di dirigere, diciamo così, la centrale operativa per lo smistamento della merce.”
“Sì, è così.”
“Lei sapeva che si trattava di armi?”
“All'inizio no. Le casse erano numerate in codice, un codice che cambiava dopo ogni carico. Era stata un'idea dei due cinesi, allo scopo di renderne difficile la falsificazione.”
“Cosa intende dire con falsificazione? Non erano certo banconote.”
“Lei ha ragione, commissario. Ma vede, se qualcuno avesse scoperto in anticipo il codice avrebbe potuto sostituire le casse con altre fasulle, tenendo per sé quelle autentiche. In fondo io avevo solo il compito di indirizzare le casse, non di conoscerne il contenuto.”
“E non ha mai sospettato che si trattasse di armi?”
“Ripeto, all'inizio no. Ma quando osservai le destinazioni e mi resi conto che erano in realtà sempre le stesse o quasi, allora capii.”
“Dove erano dirette le casse di armi?”
“Quasi tutte ai mercati dell'est. Serbia, Montenegro, Kosovo, altri Paesi della zona balcanica.”
“E poi cosa accadde? Perchè il commercio si arrestò?”
“Commissario, lei sicuramente saprà già la risposta, avrà preso informazioni. Comunque le dirò la mia versione. Venimmo a sapere che la polizia italiana aveva arrestato a Pescara un faccendiere filippino, un certo Nathan Suzette, l'uomo incaricato di portare i soldi liquidi nel Nord Europa, dove era più semplice riciclarli. Costui, in cambio di sconti di pena, aveva cominciato a parlare. E così fu semplice ricostruire il percorso dei soldi e delle armi, giungendo a me e poi ai capi.”
“Capisco. Innanzitutto complimenti per il suo italiano, lo parla davvero bene. E poi vorrei, se è possibile, che mi togliesse un'ultima curiosità.”
“Grazie, commissario. L'italiano l'ho imparato in carcere, in tutti questi anni. Che altro voleva sapere?”
“Una semplice curiosità personale, mi creda. Quando si trova a dover potare una pianta o spuntare una siepe, quel che taglia dove lo mette?”
“In nessun posto. Quel che resta dopo un taglio o una potatura, lo brucio sempre.”
“Posso chiederle perchè?”
“Certo. Una foglia ammucchiata è comunque una foglia ammucchiata, mi spiego? Se si rastrella da un albero per poi ammucchiarla in un altro posto, è solo uno spostare un inutile ingombro da un angolo all'altro. E poi si tratta di materiale che non fa più parte dell'albero, che non ha più una sua funzione: quindi si deve distruggere, cancellare. Non ha più un suo compito.”
“Una logica piuttosto singolare, direi.”
“Ai suoi occhi può apparire così, commissario. Ma le posso assicurare che questo modo di agire mi accompagna fin dai tempi del traffico d'armi, anzi era uno dei punti cardine che veniva insegnato a tutti noi. Una specie di massima, quasi una legge non scritta, che i capi cinesi trasmettevano a tutti i sottoposti. Quando tutto ciò che in qualche modo è legato a noi non ha più una sua funzione, la sola cosa da fare è eliminarlo. Cancellarlo, se preferisce.”
Boschi riflettè sulla risposta del pachistano, poi lo guardò a lungo. Quell'uomo curvo, così mite, che mostrava ben più dei sessantadue anni che aveva, scontava la sua pena con dignità e senso di colpa, senza inutili proclami, senza sete di vendetta. Il commissario lo aveva letto nei suoi occhi, lo aveva capito dalle sue parole. Era giunto il momento di salutarlo.
“Signor Fahrid, io la ringrazio molto per la disponibilità. Le faccio i miei migliori auguri di un buon ritorno alla vita libera. Mi ha detto il signor Viterbo che ormai le resta poco da scontare.”
“Commissario, mi resta anche poco da vivere. Un uomo che ha fatto quel che ho fatto io, magari inconsapevolmente all'inizio, non è per questo meno colpevole. Io sto pagando il mio debito con la società, come è giusto che sia, ma non lo pagherò mai nei confronti del mio cuore. Avevo un fratello che non vedo da più di quindici anni, non so nemmeno se è ancora vivo. Sarei pronto a barattare gli ultimi anni di vita libera, come lei li ha chiamati, per poter riabbracciare mio fratello.”
Boschi rimase profondamente colpito da quelle parole. Guardò l'uomo negli occhi grandi e tristi, gli strinse forte la mano e gli disse semplicemente:
“Auguri.”
Chiamò Palumbo e gli agenti, uscirono dalla cooperativa accompagnati da Maurizio Viterbo.
“Signor Viterbo, lei è stato davvero gentile e disponibile. Vorrei non disturbarla ancora, ma potrei aver bisogno di incontrarla di nuovo.”
“Si figuri commissario! Non si preoccupi, quando le occorre siamo qua. E quando si trova da queste parti ci venga a trovare. Sarà un piacere.”
Appena saliti in auto, Palumbo domandò al commissario:
“Cosa ne pensi?”
Boschi rispose:
“Ci sono diversi punti da approfondire. Ma ci penseremo in ufficio.”
Poi si rivolse a Grossi:
“Appena prendi l'autostrada e raggiungi i primi paesi dell'interno, cerchiamo una trattoria. L'ora è quella giusta.”